studio di tere grindatto

Ateliering di Sergio Gabriele
ovvero quando entro in queste stanze


Ho dato il titolo a questo Evento, ma direi meglio Performance di Tere Grindatto di “Ateliering” quasi fosse una pratica più che una costruzione, un modo di vivere più che un artefatto. Nel termine “Ateliering” possono essere distinti due aspetti ugualmente evocativi e che si rifanno ai concetti sintetici, quanto a volte labili, di spazio e tempo. L’Atelier di un artista è insieme il suo spazio e il suo tempo e a momenti nessuno dei due, come dire che si tratta di concezioni che l’uomo, e in particolare l’artista, crea proprio allo scopo di individuarne in modo vitale, o letale, il limite, la capacità di insussistenza. 

Quindi l’Arte di Tere Grindatto può essere letta come “Ateliering” o in relazione alla spazio o al tempo del suo essere. Lo spazio genera delle considerazioni, ovvero quanto influisca nella genesi dell’opera d’arte il considerarla perennemente incompiuta, un evolversi che 
trova il respiro nella mancanza di limite, di circoscrizione, concetti che per un artista sono drammatici, esiziali cioè come morire. L’Atelier si fa dunque rifugio, fuga dall’identificazione, porto franco di incompiutezza e l’aver Tere organizzato proprio qui l’evento è la riprova di quanto lei consideri labile il concetto finalità e finalizzazione. Una abiura dallo spazio, e in questo la allocazione delle opere, il percorso in qualche modo riconoscibile, ordinato, dà adito proprio alla scomposizione dello stesso e al suggerimento del vero scopo dell’atelier: il dolore di vivere e di fare arte.


C’è poi il concetto del tempo che trasforma l’Ateliering da evento a pensiero, da pratica a indistinta concezione come a dire che se anche l’Arte di Tere fosse concepita e mostrata in contesti diversi dallo studio, dal laboratorio, lontana dall’attimo stesso della elaborazione, conserverebbe immutato il suo aspetto di Arte in fieri, perennemente in trasformazione, perennemente insoluta.

Perché è nel dna dell’arte di Tere che risiede l’interrogativo, il quesito universale di vita, se sia giusto, per dirla con Shakespeare, soffrire nell’anima i colpi e i dardi di una oltraggiosa fortuna o prendere le armi contro un mare di guai e con l’opporsi por fine ad essi. Tutto è evanescente e concreto nello stesso momento, c’è sempre una motivazione e non c’è mai, c’è sempre una capacità e possibilità di lettura e costantemente se ne è sviati, nell’epica di imprendibilità che è la nostra vita. La costruzione è destrutturazione e ogni inizio fine. Ma preferisco esprimere tutto ciò in un linguaggio che, forse, mi è più congeniale che è quello poetico, dando al termine il significato di prediligere il volto magico di tutte le cose.


Quando entro in queste stanze non ne resta per nessuno, neanche per me. Mi muovo nella virtù di queste idee come se non fossero le mie, come se le mani che iniziano a muovere oggetti come colori non fossero i miei testimoni, ma i bisbigli di chi mi ha preceduto, i sussurri di chi mi seguirà.

Mi vedo, mi osservo dare un ordine a queste voci che , più mi indicano il da farsi, più scivolano verso l’essenza stessa del fare, cioè il nulla, o meglio un nulla fatto di tutto, ma che resta lì senza un nesso ma una grande ragione, che non riesco a scoprire in loro, le opere, così uguali e diverse, ma in me, origine e fine, tutore e denigratore, assenza e presenza, una, che le contempla tutte.

Ho voglia di fuggire, a volte, altre di rintanarmi, e cercare la sicurezza nei punti ove più sfugge, e allora mi accorgo che sono loro, le cose i colori la materia, che dipinge me, mi forma, in un attimo mi disintegra, ma resto sempre lì, con il mio fiato e l’impossibilità di proferire il no, ma contemplarlo soltanto.

Secoli orsono ero vento e tempesta, vulcano che erutta e mare che raccoglie tutte le acque del mondo, ero luce e tenebra che si mischiano, buio che si fa profondo bagliore e indica la distanza, la misura.

Ora, qui dentro, mi sento tutto questo e molto di più.

Ora, qui, sono io.
esposizioni dal'94

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