Abbazia di Santa Maria di Cavour

LORENZO GRIOTTI
Guardare vicino, vedere lontano.
Vedendo le opere recenti di Lorenzo Griotti (e ho detto vedendo, non guardando) i primi 
pensieri che immediatamente mi appaiono sono: Luce, Eraclito di Efeso e gli Idoli. 
In ordine sparso voglio provare a parlarne. Ripasso alcune cose da wikipedia e leggo: 
Eraclito è comunemente definito il filosofo che sostiene che solo il cambiamento e il 
movimento siano reali e che l’identità delle cose uguali a sé stesse sia illusoria. 
Continuo a leggere, e qui la lettura si fa più accattivante, didascalica per l’occasione: 
Eraclito, inoltre, aveva fama di cripticità già nella sua epoca; il rimando al titolo 
della mostra e al luogo, è diretto.
Penso a cosa ho visto e mi viene in mente la luce con cui i suoi Idoli (li ha chiamati 
così Lorenzo, quelli che installati in altri luoghi chiamava Villaggi) e penso che tutto 
questo è straordinario perché è vivo e muta e accetta la trasformazione, come vivesse di 
vita propria e accogliesse, camaleonticamente, di essere se stesso pur diventando altro, 
che è solo un altro modo di essere se stesso. La parola, in latino Idola, evoca i 
simulacri (che rimanda a simulare), all’immagine, alla rappresentazione di una divinità 
e anche questo è un caso felice ma i titoli, per molti artisti, sono un tramite preciso 
per orientarci nelle loro opere. 
E poi c’è la luce, intercettata amabilmente dalla sua installazione, che non ha nulla di 
minimalista ma deborda, invece, verso un disincantato rapporto che riconduce ad un'identità 
primaria incarnando una primitività post-moderna (e la luce è colore ma anche fonte di 
spiritualità).
Sono questi i pensieri che fluttuano nella mia mente, vedendo queste opere mutevoli. 
Identiche a se stesse ma impermanenti; reali a tutti gli effetti (hanno una consistenza 
materiale) eppure apparentemente prive di sostanza. Li rivedo nello spazio calmo della 
cripta, denso di umori spirituali, e da Villaggi sono divenuti Idoli. Per molti artisti 
l’ossessione della riconoscibilità è un problema; per Griotti è un valore pensare opere 
che possono divenire altro e vivono di vita propria. Non sento contraddizione per aver 
parlato, in un'altra occasione, di un aspetto ludico del suo lavoro, di aver scritto che 
il suo operare ci introduce in un terreno fertile, dove la poesia si accompagna al design 
in una concezione serializzabile dell'opera d’arte, perché la sua avventura di artista 
inizia nei primi anni ’60, quando con altri fondò il gruppo “Corpi Plastici
anticipando, per molti versi, la stagione in cui gli artisti preferirono chiamarsi 
"operatori estetici". Da quel tempo Griotti ha continuato a dispiegare la sua ricerca con 
intenti gioiosi. 
Il suo anti-espressionismo, nutrito di sperimentalità (anche intorno ai materiali utilizzati, 
penso all’uso attuale del perspex), lo ha condotto ai giochi di oggi. E il gioco, lo sappiamo 
bene ma spesso lo scordiamo, è una modalità per crescere e la psicologia ha visto nel gioco 
il protagonista dello sviluppo psicologico del bambino, poi si diventa grandi e si finisce 
per devalorizzarlo come se crescere fosse un processo che si interrompe improvvisamente. 
Non dimentichiamo inoltre che nel gioco la fortuna, il caso, l’alea, è una parte importante 
e tutto ciò ha a che fare con la vita proprio come l’arte. E l’arte di Griotti attraversa 
questa dimensione accettando la sfida del caso, giocando seriamente con le opportunità che 
la realtà gli offre. 
C’è un altro aspetto molto importante che trapela nei suoi lavori e diviene evidente 
nell’Eco posto nel verde del prato dell’abbazia. Un semplice parallelepipedo cavo, che 
riecheggia lo 001 del titolo della mostra, può riflettere all’infinito il gioco della visione; 
da qui, da questa visione, non fatico pensare ad un rapporto autentico con la natura e 
all’eterno dibattito tra natura e cultura, ben risolto nelle naturali artificialità delle 
sue opere.
Quale sia il compito critico, da quando esiste una cosa chiamata critica dell’arte, non è 
dato risolverlo in poche parole e tanto meno in questa circostanza. Sono però portato a pensare 
che debba servire ad uno sguardo libero da pregiudizi e possa condurre la percezione oltre la 
superficie, pur attenendosi proprio ad essa. 
Ho cercato di fornire alcuni ingredienti affinché sviluppino possibili interpretazioni, aiutino 
lo sguardo emozionale a non fermarsi all’apparenza pur apprezzandola, vivendola pienamente e, 
in questo caso, quello che appare è ben più di quello che si vede e la sua avventura artistica 
può solo continuare a riservarci piacevoli sorprese.
SERGHEJ POTAPENKO
Nello scorso secolo di pittura se n’è vista poca e molto spesso è stata solo un pre-testo per 
parlare di altro. 
Serghej Potapenko (prematuramente scomparso nel 2003) parla con la pittura a tutti gli effetti. 
Artista erratico, con la sua opera esplora i confini del narrare dipingendo, non riposando su 
modelli acquisiti ma inducendoci a riflettere sull’imprevisto, trasfigurando i contenuti materiali, 
abbozzando spesso una storia nella storia, “quel qualcosa da vedere” non solo con gli occhi. 
Uno scivolare del pennello sulla tela con un fare poetico denso e grumoso, in tonalità spesso 
anche cupe che anelano ad un’immaginazione forte e precisa in cui le cose fluttuano quasi 
per difendersi dalla violenza della realtà. Un immaginario che ritorna giocoso e ombroso insieme, 
si sostanzia negli umori della pittura per rivelarsi in un nuovo sguardo. 
Angeli, carte, armature, pesci, volti, corpi… vivono nel suo universo poetico e ci vengono donati 
per essere ammirati e catturarci in un volo creativo che contempla il mondo funambolicamente; 
facendoci respirare un’aria sottile che attraversa le cose respingendo ogni inutile verismo. 
Con Potapenko la pittura rivive senza alcun bisogno di essere giustificata perché il novecento 
ci ha insegnato molte cose anche ad allontanarci da inutili peripezie avanguardistiche o peggio, 
pseudo tali. 

esposizioni dal '94

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