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Invito

Cibo nudo
    
         VALTER LUCA SIGNORILE

CIBO NUDO
testi  di Nino Pennacchia
+Michele Bramante
13 gennaio ore 17 > 24 febbraio 2007
 

altri lavori

La figura e il suo doppio

Se potessimo per prima cosa venire introdotti nell'ipogeo, bendati, o attraverso un cunicolo segreto, 
ci troveremmo in modo non mediato e subitaneo nella finzione di un tempo sospeso, solo notturno, perciò 
qualitativamente diverso dal tempo al quale siamo abituati.

L'opera che lì ci attende in qualche modo tradisce la nostra attesa di visitatori, perchè il suo freddo 
nitore c'interroga più profondamente di quanto non si lasci interrogare, mentre l'angoscia preme sul 
pensiero alla ricerca di uno sbocco. 
Come sempre il pasto è nudo.

CIBO NUDO, titolo scelto da Valter Luca Signorile, 
richiama IL PASTO NUDO (THE NAKED LUNCH) di William Burroughs. 

Benché sia casuale, la somiglianza dei titoli non è una coincidenza superficiale, dato che Burroughs 
spiega così il titolo del suo romanzo: 
un attimo congelato quando ognuno vede cosa c'è sulla punta di ogni forchetta.
Risvegliatosi dalla Malattia all'età di quarantacinque anni, lo scrittore, sia pure senza una chiara 
consapevolezza, aveva scritto in modo dettagliato del delirio vissuto. 
Il testo e la sequela di figure di non s'incrociano nei contenuti, ma nella forza iconica oscena e 
brutale generata dallo sconfinamento reciproco di delirio ed espressione.
Le visioni di Valter Luca Signorile si offrono come diario spirituale di una malattia, 
dalla quale nessuno di noi può dirsi immune.
I gesti ambigui dei corpi, inscenando la verità di una sessualità polimorfa, per sua natura contraria 
all'eterosessualità normativa, coincidono con l'invito di alcune teologhe contemporanee a esplorare 
territori contrari all'ordine simbolico vigente per (1) spodestare o spostare il centro, occupando tutti 
e tutte il posto dell'altro ossia i margini.
Dandoci un'opportunità di sperimentare il movimento verso il margine, CIBO NUDO ci mette in 
comunicazione con gli altri a partire da quel grumo più essenziale e originario di ognuno di noi, 
ciò che ci fa persone tra le altre, come le altre. 
La sostanza cromatica della pittura evoca lo stillare di fluidi corporei come la cantò Walt Whitman 
esortando il suo sangue:
(...) 2 dal mio petto, dall'intimo ove ero nascosto, uscite fuori stille
purpuree, stille di confessione,
macchiate ogni pagina, macchiate ogni canto che intono, ogni
parola che dico, stille sanguigne, (...).
Il gocciare di sostanza dall'artista alle sue immagini - saturatele di voi, che ne restino intrise e ontose, - 
deve necessariamente far leva su una specie di crudeltà; pena la mancata autenticità dell'esito finale, 
l'incapacità dell'opera di parlarci.
Il fondo visibile, industriale, della carta indica con il sapore sgradevole dell'ingiunzione, il solo simulacro, 
poiché non c'è altro. 
Ma i simulacri sono vuoti e il nostro sguardo ritorna su noi stessi; quasi con il venir meno di buone 
maniere, la cava singolarità di ogni corpo rappresentato c'investe di sé.
Sempre che stiamo al gioco, una leggera confusione può indurci a sentire esposta la familiarità che 
abbiamo con l'identità negata della vittima. 
Il piacere provato durante il lavoro dall'artista si è cristallizzato tanto nella bellezza degli oggetti, quanto, 
ironicamente, nella macabra sospensione da cui sono connotati. 
Come una moneta il teschio mostra una faccia, nascondendone l'altra.
Parafrasando A. Danto su uno scatto di Mapplethorpe - 
3
C'è della bellezza, c'è della trascendenza, 
ma la verità della morte viene mantenuta e non può essere soppressa. 

Nino Pennacchia, gennaio 2007

1 Marcella Maria Althaus-Reid, Concilium n.5 - 2002, Queriniana
2 Walt Whitman, Gocciate stille da Foglie d'erba, Mondadori, 1972
3 A cura di Davide Faccioli, 100 al 2000:il secolo della fotoarte, Photology, 2000

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