intervista_dialogo tra Marco Filippa e Claudio Rotta Loria

1. Claudio, l’ennesimo equatore, puoi spiegarci il significato di questa scelta ? 

Perché un altro equatore? Perché in questo momento della mia ricerca artistica 
e della mia vita, l’equatore, con la sua estensione curvilinea, simboleggia una sorta di 
abbraccio collettivo, un gesto omnicomprensivo di affetto per la natura, per le cose, per 
i luoghi e le persone. E’ il segno forte di un mondo emozionale rotondo e intenso. 
Al tempo stesso l’equatore rappresenta il simbolo del grande viaggio che l’arte rappresenta 
e che consente di fare a chi l’ama per davvero.

2. Scorgo nel tuo grande abbraccio un’evocazione Matissiana e ancora una volta un’installazione 
in situ, nel vivo della realtà, accettando pienamente la filosofia del work in progress; un po’ 
come dire che l’occasione fa la vita. Qualcuno diceva, ma non ricordo più chi:- 
Fai quel che devi, accada quel che può?
La condizione indispensabile d’ogni mio intervento installativo è la presenza nella realtà 
di un fattore la cui particolarità topologica richiami la mia attenzione con un’imperiosità 
che non lascia scampo. Questo “colpo di fulmine”, nella maggior parte dei casi si traduce 
nella decisione di realizzare l’opera in situ, incurante della trafila e dei disagi dei 
sopraluoghi, delle difficoltà e delle fatiche collettive di realizzazione. 
Nel caso de La via del sale l’oggetto di innamoramento è stato la torre del castello di Prunetto. 
Nella chiesa di Cortemilia, luogo della collettiva, le due aperture sui lati dell’altare, sono 
altresì divenute spazio di una nuova versione della box installation Aequator –oris, una sorta 
di dittico sul mondo e sulla “follia” umana.
3. Ancora una volta ho avuto la felice opportunità di seguire l’opera mentre nasceva. 
L’individualismo dell’artista spesso mal sopporta di interagire con altri; al contrario tu 
dialoghi, stabilisci relazioni reali, accetti suggerimenti, trovo piuttosto singolare questo 
tuo atteggiamento apprezzabilissimo. Cosa puoi dirmi in proposito?
Alla base di quanto tu rilevi, vi è indubbiamente un fatto di personalità, di carattere, che 
fa dell’ascolto la via privilegiata del mio rapporto con l’altro. Ma vi è, al tempo stesso, 
una dimensione interna al mio fare installazioni che condiziona quest’atteggiamento. 
La grande dimensione, infatti, rende inevitabile e indispensabile la presenza di aiuti per 
sostenere, fissare, sollevare, spostare, elementi non gestibili individualmente, aiuti che 
risultano preziosi anche per esprimere un primo giudizio sull’articolazione compositiva degli 
elementi che sto trasferendo nello spazio reale dalla fase del progetto a tavolino. 
Nel momento in cui, su trabattelli, scale, ponteggi, costruisco e assemblo materiali e colori, 
non posso ovviamente essere spettatore del mio operato. Il giudizio dell’altro è, pertanto, 
una prima condizione per fissare provvisoriamente quanto vado accostando e per giudicarne 
l’efficacia.
Non è la prima volta che tu svolgi questo compito di “sguardo éloigné” e partecipante ad un 
tempo al farsi delle mie opere. In quest’occasione, hai condiviso questo prestito dello sguardo 
con mio figlio Alessandro, preceduti da Silvana e da Enrico, il fabbro con cui abbiamo fissato 
per un’intera giornata, tormentati da un vento violentissimo, la struttura del lavoro. 
In generale, devo sempre un ringraziamento a molte persone nella mia attività installativa 
(penso agli amici e alle donne di famiglia, Francesca, Melissa e Sara): ad ogni installazione 
collego nella mia memoria il volto di chi mi ha aiutato a realizzarla. 
A tutto questo bisogna aggiungere che, per mia natura e formazione, rimango estraneo ad un’idea 
d’artista sprezzante, titanico e individualista, come pure all’idea del fare arte tipica del 
neoidealismo e neoromanticismo contemporaneo. Il mio modo di concepire l’arte, che di per sé 
rappresenta già un gran privilegio, è più vicina all’idea di dialogo con l’altro, con il diverso 
e il simile, con i luoghi, con la natura e con lo spazio. Fare arte è, infatti, una scelta molto 
speciale, una via percorrendo la quale è possibile costruire nuovi mondi visivi e percettivi, 
nuovi modi d’essere, nuovi stili di vita, nuovi contesti di valori più inclusivi. 
4. Anche in questo lavoro, il passaggio dal segno dipinto a quello articolato nello spazio 
(saremmo tenuti a dire “reale”), denotano una fiducia “quasi assoluta” nella pittura… certo, 
quella moderna/contemporanea, ma anche una continuità/contiguità con alcune esperienze del passato: 
penso alla Battaglia di San Romano di Paolo Uccello, alla sua straordinarietà spaziale fortemente 
strutturata e bilanciata tra i flussi morbidi dei corpi dei cavalli e le geometriche tracce delle spade. 
Col tuo lavoro dimostri che anche nel secolo XXI è possibile fare pittura e il tuo codice aperto 
slitta continuamente tra geo-metria e geo-grafia. 
Mi fa particolarmente piacere il tuo riferimento alla Battaglia di San Romano. Si tratta dell'opera 
che più ho amato da ragazzo per via della virtualità cinetica delle aste verticali e inclinate, che 
si risolve in un gioco di straordinaria astrazione. A distanza di molto tempo la forte impressione 
che quest'opera produceva in me, mi pare sorprendentemente anticipatrice di molti sviluppi della 
mia ricerca. Anche in questo caso, il castello di Prunetto, l’agente topologico scatenante non mi 
è stato immediatamente evidente. La torre risulta nascosta alla vista del visitatore sino a quando 
non si sia superata l’ala laterale del castello. Allora, appare con sorpresa, sullo spigolo di 
sinistra della facciata principale, l’unico elemento curvo di questa possente costruzione. 
Alla sua vista, immediata è stata la decisione di far scorrere intorno alla rotondità della torre, 
una nuova e pur sempre terrestre rotondità quella dell’equatore. Il carattere site specific di questa 
installazione è condizionato dalle dimensioni della torre, dalla sua disposizione in relazione 
all’esposizione solare, dalla precarietà dei punti di ancoraggio negli interstizi friabili delle 
pietre della parete, dalla resistenza dell’opera e dei materiali all’esposizione alle intemperie 
e, specificamente, ad un frequente vento fortissimo, dai molteplici punti di vista del percorso 
di visita... Fattori che modificano e determinano il formarsi dell’installazione, che comportano 
un processo sperimentale e una contratta ricerca di soluzioni, che obbligano a sospensioni, riprese 
e a nuove sospensioni, in un tempo sempre troppo breve per non stare in affanno. 
È proprio vero il tempo è sempre troppo breve ma, credo, non possiamo che aggrapparci ad un sano 
pragmatismo e il tuo modus operandi, la tua struttura umana, non lascia trapelare affanni o nevrosi 
e ha la curiosa proprietà di tranquillizzare chi ti sta accanto sapendo che la soluzione ci sarà. 
C’è piena corrispondenza tra i tuoi lavori e il tuo “essere”. Citando Laurie Anderson potremmo dire 
walking and falling e so che cadremo, come sempre, in piedi tra i flussi di linee e colori, nei tuoi 
equilibri instabili dove soggiornano pensieri leggeri. Grazie Claudio.

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